di Andrea Benedino e Anna Paola Concia
Quello che vivremo oggi a Roma sarà un Pride diverso da quello degli ultimi anni: intriso di rabbia e amarezza, di un senso d’impotenza e rassegnazione. Solo un anno fa a Torino il Pride fu la festa della speranza. Oltre centomila persone invasero la città per chiedere pari diritti per tutti. Eravamo all’indomani della vittoria del centrosinistra e della formazione del nuovo governo e quella era la prima grande manifestazione di piazza. Seppur disilluso dal mancato inserimento dei Pacs nel programma dell’Unione, il popolo lgbt coltivava ancora la speranza che qualcosa potesse comunque cambiare. La ministra Pollastrini ci raggiunse in piazza assieme alla presidente del Piemonte Mercedes Bresso per dare il segno della volontà di dialogo del governo e delle istituzioni. Il giorno dopo La Stampa titolò «Mercedes e Barbara: le Zapatere frustano l’Unione».
Era solo un anno fa, ma sembra passato un secolo. Da allora sono cambiate molte cose. Anche per noi di Gayleft che nel corso di quest’anno abbiamo vissuto il dramma di tanti abbandoni. Il governo che abbiamo di fronte, al di là dell’impegno encomiabile di alcuni esponenti, in primis Barbara Pollastrini, sta tradendo le aspettative. Nessun risultato concreto, fatta eccezione per l’approvazione del timidissimo ddl sui Dico, peraltro ben presto arenatosi in Senato. Una Conferenza sulla Famiglia (declinata al singolare) che ha lasciato le famiglie di fatto fuori dalla porta come degli appestati. Qualsiasi iniziativa sui diritti civili, come negli ultimi giorni la legge sul testamento biologico, bloccata dal potere d’interdizione di quel manipolo di fanatici clericali che prende il nome di “teo-demâ€. Il nostro partito, i Ds, ormai in avanzata fase di dissolvimento e in preda al disorientamento generale, senza una guida certa e senza una prospettiva sicura, come l’esercito di Badoglio dopo l’8 settembre del 1943. Come se il Pd lo si potesse costruire sul presupposto di un’equidistanza pelosa tra i diktat delle gerarchie di Oltretevere e i diritti dei cittadini. Come se il dialogo coi cattolici e le mediazioni sui valori li si potesse far avanzare, come ha scritto ieri Andrea Romano, soltanto seduti a tavola con i teo-dem, unici titolati a quanto pare a dare l’interpretazione autentica dei “desiderata†del Vaticano e a stabilire quali leggi mandare avanti e quali no, quali patrocini poter dare e quali no, quali ministri possono scendere in piazza e quali no. Senza più alcuna reazione degna di menzione da parte dei nostri leader alle continue invasioni di campo di vescovi e cardinali. Il tutto in barba alla grande tradizione di autonomia del cattolicesimo democratico, testimoniata di recente dal “documento dei 60 parlamentari Dl†e dall’appello del compianto Giuseppe Alberigo.
Nel frattempo è mutato il clima sociale. È aumentata in modo esponenziale la violenza omofobica, gli attentati alle sedi, le persecuzione alle persone, persino gli omicidi. Nel silenzio del ministro Fioroni assistiamo all’incapacità della scuola di affrontare in modo appropriato il tema delle differenze sessuali. È di qualche giorno fa la notizia che in una scuola media di Nichelino un preside ha sospeso una rappresentazione teatrale di fine anno perché si affrontava (peraltro con molta leggerezza) il tema del lesbismo. Ma “lesbica†per quel preside equivaleva a una parolaccia e di certe cose a scuola è meglio non parlare, perché i ragazzi non sono pronti ad affrontarle. Come se spiegargliele non fosse compito della scuola.
Non c’è da stupirsi quindi che sia la rabbia a prevalere in questo Pride e che il movimento lgbt stia rischiando di scivolare verso il radicalismo. È nient’altro che la logica conseguenza della rabbia della nostra gente, che non ne può più di essere usata e derisa da questa politica. Dell’impotenza cui siamo condannati da questi fragili equilibri parlamentari e dalla pavidità dei leader politici. L’errore da evitare però, tanto più in un momento come questo, è di chiuderci in noi stessi, abbandonando ogni politica delle alleanze e sparando addirittura su chi prova a costruire ponti di dialogo, come ha rischiato di accadere ieri nelle polemiche sul patrocinio della Pollastrini. Al contrario, per uscire da quest’empasse è necessario costruire forti e salde alleanze sociali e politiche, per fare dei temi del Pride non il patrimonio di una minoranza discriminata, ma il segno di un paese che vuole cambiare.
Sta a una politica saggia saper ascoltare e interpretare la rabbia di questo Pride. Sta al futuro Partito democratico comprendere come la ricchezza di questa piazza sia infinitamente più preziosa del cilicio clericale che ci hanno costretto a portare i teo-dem da un anno a questa parte.
Portavoce nazionali Gayleft
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