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PENELOPE SI E’ ROTTA DI ASPETTARE
Le immagini, tutte le immagini, secondo Roland Barthes hanno una doppia valenza.
Le puoi leggere secondo le intenzioni dell’autore, oppure vederci quello che vuoi. Indicare qualcosa con il dito che può essere anche piccolo, inessenziale, ma è ciò che colpisce il tuo sguardo. In questi giorni vedendo le immagini dei tunisini che arrivano in Italia, a noi ha colpito non ciò che si vede, non ciò che è evidente, ma ciò che non si vede. Ci ha colpito non la presenza, ma l’assenza. Il fuori campo. Ci ha cioè colpito il fatto che quelle immagini raccontino solo di giovani uomini e che non ci siano le donne. Quella assenza parla più di tante immagini, più di tante parole. Racconta tante cose. Racconta di donne che sono rimaste a casa e che attendono notizie dai figli, dai mariti, dai fratelli. Le donne restano a casa come Penelope, solamente che gli uomini partono non per conquistare il mondo come Ulisse, ma per fuggire da tirannie e fame, per cercare un nuovo futuro. Ma il fatto che le donne siano ancora come penelope non è un’immagine poetica. E’ un’immagine che non ci piace per nulla. Dopo millenni sopravvive ancora la divisione dei ruoli: le donne aspettano, gli uomini vanno. Sappiamo bene che per gli uomini il potere di andare, di fuggire, è pieno di pericoli, dolori, morte. Basta vedere come vengono trattati i migranti che arrivano in questi giorni. Ma almeno posso provarci, posso tentare di avere un’altra vita. Quante donne che restano sarebbero volute fuggire, quante vorrebbero venire in Italia. Ma anche quelle poche che riescono a venire poi rischiano di finire, come gli uomini, nei Cie, ma più degli uomini sono a rischio. Per loro, tra i tanti rischi, c’è quello di essere violentate dalle stesse forse dell’ordine. Chi dovrebbe proteggerle, è spesso il peggior nemico. Questa assenza quindi parla anche di noi. Parla alle donne che in questi mesi si sono date appuntamento nelle piazze italiane. Dovremmo parlare anche di questo, fare qualcosa per le donne che restano e per quelle che vengono. Sentirci toccate, forse anche un po’ scandalizzate, dall’assenza che le immagini degli sbarchi ci rimandano. Non si tratta di pietismo, di colonialismo travestito da solidarietà femminile. Le contraddizioni, le contraddizioni del mondo occidentale, riguardano anche noi e le questioni che poniamo. E non possiamo pensare di parlare della nostra libertà e della nostra dignità senza mettere in discussione quello che sta accadendo: una nuova guerra, l’indifferenza nei confronti di tanti esseri umani e la conferma di un mondo in cui uomini e donne subiscono un destino fondato sull’appartenenza di genere. Sarebbe anche l’occasione per rimettere a tema la divisione sensuale del lavoro: da una parte la produzione, dall’altra la riproduzione sociale affidata alle donne. Il fatto che oggi abbiamo affidato ad altre donne, donne che arrivano da altri Paesi, il lavoro di cura, non significa che abbiamo risolto i problemi. Anzi, si sono solo acuti, esasperati. Parliamone. Se non ora quando?