Parliamo di scuola. Questo articolo di Claudia Mancina uscito oggi sul "Riformista" solleva questioni su cui è necessario riflettere se ci si vuole davvero occupare del futuro di questo paese.

Parliamo di scuola. Questo articolo di Claudia Mancina uscito oggi sul “Riformista” solleva questioni su cui è necessario riflettere se ci si vuole davvero occupare del futuro di questo paese.

 CARO PD LA GELMINI HA RAGIONE   di Claudia Mancina

 

 

La scuola costituisce da sempre un lato molto esposto del profilo riformista della sinistra. Esposto, cioè, alla regressione negli amtichi vizi dell’opposizione comunista: statalismo, corporativismo, propagandismo. Anche oggi il Partito democratico sembra voler raccogliere le truppe di un’opposizione dispersa contro le misure del governo sulla scuola, promettendo un autunno caldo che ricalca quello che nel 2001 oppose il centronistra alla Moratti. Le ragioni di questa sensibilità non sono difficili da individuare. La prima attiene a una tradizione culturale. La sinistra si è sempre battuta per l’efficienza e la dignità del sistema pubblico, per l’accesso egualitario, per i diritti degli studenti e degli insegnanti, per la democrazia scolastica. Ha l’orgoglio di avere ispirato la maggiore (se non unica) riforma del dopoguerra, quella che istituì la scuola media unica. Tutti obiettivi estremamente meritori, che tuttavia non possono essere ripresentati oggi tali e quali: alcuni vanno ripensati, altri ridimensionati; tutti accompagnati da altri più attuali e forse più urgenti obiettivi. Un’altra evidente ragione, meno nobile ma non meno stringente, è che in questa enorme azienda e nel suo indotto – le famiglie – la sinistra trova da sempre una parte consistente e molto attiva della sua base elettorale e d’opinione, con la quale la CGIL fa da cerniera. La centralità della scuola tuttavia si fa sentire soprattutto quando c’è da fare campagna di opposizione. Sul piano proprio del riformismo, dopo la stagione di Luigi Berlinguer, in gran parte fallita proprio per gli ostacoli posti dal sindacato e dal tradizionalismo della sinistra, non è che si sia visto o si veda molto, al di là di un buonsenso democristiano anni cinquanta, rimesso in circolazione dal passato ministro e dall’attuale governo ombra.

Siamo oggi di fronte a una nuova titolare del Ministero, che sta presentando – finora solo a parole – qualcosa di simile a un progetto di riqualificazione della scuola pubblica in base a principi quali il merito, la responsabilità, l’autonomia e la valutazione. Sono principi che non si possono non condividere, e che anzitutto il Partito democratico dovrebbe condividere. L’affermazione a mio parere fondamentale è che la funzione della scuola è quella di formare le nuove generazioni e non quella di combattere la disoccupazione. A partire da qui (o, con le parole di Attilio Oliva, guardando la scuola finalmente dalla parte degli studenti e non da quella degli insegnanti) andrebbe disegnato l’intervento dell’opposizione. La Gelmini dovrebbe essere sfidata a realizzare davvero quello di cui parla, cioè a presentare provvedimenti corrispondenti alle cose che dice. Poi le sue proposte si potranno criticare, e si potranno fare proposte diverse. Ma altra cosa è tirare fuori il solito armamentario dell’attacco alla scuola pubblica, al tempo pieno all’occupazione, ai precari, ecc.

Guardiamo per esempio la questione della scuola elementare, l’unica sulla quale c’è un atto concreto (anche se ancora vago quanto all’attuazione) della ministra. Si può dire che il ritorno al docente unico è solo una questione di tagli, ma è altrettanto lecito pensare che il passaggio al docente plurimo fu essenzialmente una scelta occupazionale. Poi ci sono argomenti pedagogici a favore dell’una come dell’altra opzione. E del resto, da quando i tagli in una struttura mastodontica, costosissima e inefficiente sono un disvalore? Si dovrebbe piuttosto ragionare su quali altri tagli, magari più produttivi, siano possibili, per esempio intervenendo sull’organizzazione del lavoro e sul dimensionamento delle strutture. Ma i tagli nel sistema scolastico, che sono stati resi inevitabili dalla contrazione demografica prima ancora che dalle difficoltà finanziarie, sono cominciati almeno col governo Amato (1992). Da allora, con la parentesi Berlinguer, la sinistra che si dice riformista non è stata capace di produrre un progetto per la scuola che non fosse la cieca battaglia per lasciare tutto com’era, magari spendendo di più.

Ma la scuola italiana com’è - non solo i rapporti Ocse ce lo ricordano puntualmente, ma tutti lo vediamo e lo sappiamo - non funziona. Non funziona come agenzia di istruzione in senso stretto, come risulta dall’alto numero di abbandoni e come può dire chiunque insegni all’università e si veda arrivare ogni anno studenti un po’ più impreparati. Non funziona come agenzia formativa in senso ampio, come risulta dall’evidente crisi di identità e di ruolo degli insegnanti, dalla diffusione di comportamenti devianti tra gli studenti, dalla crescente difficoltà, che ogni docente serio riporta, di coinvolgere l’interesse degli allievi sulle materie curricolari. Di conseguenza non funziona neanche dal punto di vista democratico, perché non riesce a compensare in alcun modo le diseguaglianze di opportunità dovute alla nascita. Sono problemi grossi, e se Veltroni pensa davvero che la formazione sia vitale per un paese moderno dovrebbe portare il suo partito a analizzarli e a fare proposte per affrontarli. Vorrei sentir dire al Partito democratico che l’insegnamento è una professione, e quindi bisogna introdurre una reale differenziazione di ruoli e di stipendi tra gli insegnanti, primo, indispensabile passo per ridare slancio all’insegnamento; che bisogna formare gli insegnanti all’uso attivo e creativo delle tecnologie nella didattica; che bisogna formare i presidi alla direzione aziendale; che bisogna accorciare il ciclo di studi di un anno, per evitare che i nostri ragazzi siano svantaggiati nel confronto con gli altri paesi europei; che bisogna abolire il vetusto esame di maturità e sostituirlo con prove scritte corrette da agenzie esterne; che bisogna dare alle scuole reale autonomia e quindi anche la libertà di assumere i docenti sulla base di liste di idonei; che i genitori sono chiamati a condividere la responsabilità educativa ma non devono intromettersi nella responsabilità professionale dei docenti (chi ha letto l’inquietante lettera di una genitrice di un illustre liceo romano, pubblicata da Repubblica nei giorni scorsi, sa di cosa parlo).

Sono scelte difficili e impopolari, e il Pd non sembra affatto intenzionato a farle. Dubito che ci riesca anche la ministra Gelmini, visto il destino di chi prima di lei in modo diverso aveva tentato alcune di queste strade. In Italia si parla molto della centralità della scuola, della sua crisi, della sua mancata altissima funzione culturale, ma poi si rifugge dallo sfidare il potentissimo blocco di opinione che rifiuta qualunque intervento riformatore, e che è trasversale agli schieramenti politici. Se però per fortuna o per virtù la ministra riuscisse a fare anche una sola delle cose di cui parla, sarebbe ancora una volta un punto per il governo, ancora una volta un’occasione perduta per il Partito democratico.

Paola Concia

Paola Concia

Abruzzese di nascita, mi sono laureata presso La Facoltà di Scienze Motorie de L'Aquila. Il mio impegno in politica ha avuto inizio negli anni ottanta nel Partito Comunista Italiano, poi nei Democratici di Sinistra e in seguito nel Pd, di cui attualmente sono membro della Direzione Nazionale.

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