Il mio articolo pubblicato oggi da l'Unità in risposta a Francesco Merlo

Il mio articolo pubblicato oggi da l’Unità in risposta a Francesco Merlo

L'ipocrisia del silenzio su una "famiglia altra"

Ogni volta che c’è un disastro come quello dell’aereo della Spanair e vengono spezzate tante vite e, tra queste, quelle di coppie di turisti italiani eterosessuali, i giornali raccontano “Stavano per sposarsi” oppure “erano in luna di miele” e giù con i particolari. Nessuno di questi giornali si interroga se entrare o meno nelle vite intime delle persone o sul mancato rispetto della privacy dei defunti.

A Madrid sono state distrutte famiglie intere. Tra quelle famiglie intere c’era quella di Domenico Riso. Questa è la verità. Quanto è semplice la verità, quanto è bella e generosa, perché restituisce quello che siamo, quando è autentica e libera da condizionamenti. Il punto è questo. Nessuno ha chiesto che si entrasse sotto le lenzuola dei defunti, che si raccontassero dettagli privati opruderie della vita familiare del povero Domenico Riso e del suo compagno francese. La richiesta era che si desse dignità, almeno di fronte alla morte, alla tragedia che ha spazzato via una intera famiglia: due persone che avevano scelto un progetto di vita in comune e che, come tante altre famiglie, crescevano insieme un bambino.

La differenza c’è, ed è enorme. Una differenza che trasmette la enormità della tragedia più grande. Ho provato per un momento ad empatizzare con quello che è successo: se fosse capitato a me, se io e la mia compagna tedesca fossimo state su quell’aereo e con noi ci fosse stato un figlio che la legge tedesca ci consentirebbe di avere, io avrei voluto che la mia famiglia fosse riconosciuta come tale almeno una volta nella nostra Italia. Avrei voluto che, oltre alla morte dei singoli, l’attenzione si soffermasse sulla tragedia più grande della distruzione dell’intero nucleo familiare. Quella famiglia “altra”, sulla quale il nostro paese si ostina a mantenere il silenzio, un silenzio ipocrita.

Questo è il nodo della vicenda. Il silenzio sugli affetti e sul progetto di vita comune che va in fumo insieme ai corpi. Quel muro quasi omertoso che avvolge le famiglie omogenitoriali e che, invece, non c’è quando la cronaca (nera) si occupa di delitti avvenuti negli “ambienti gay” o a margine di “festini gay”.

È questo quello che sembra non cogliere Francesco Merlo, nell’articolo pubblicato ieri da “la Repubblica”. Ed è questo il senso della lettera che ho firmato con molti esponenti del movimento omosessuale.

In questi giorni sono in Puglia, per uno scampolo di vacanza. Qui sono stata raggiunta da un giovane della provincia leccese, che mi ha chiesto aiuto perché viene costantemente insultato, picchiato e umiliato dalla propria famiglia, che non accetta la sua omosessualità. A questo giovane uomo non è riconosciuta alcuna dignità, a causa del pregiudizio che ancora avvolge l’omosessualità nel nostro paese. La famiglia di questo giovane pugliese lo sta cacciando di casa, perché si vergogna, mandandolo a vivere in un tugurio di campagna, lontano dal paese e dai commenti dei vicini e dei parenti. Egli sarà costretto a partire, ad andare altrove, perché la propria personalità possa svilupparsi in un ambiente sereno, come vuole la Costituzione del nostro paese. Cosa che, con tutta probabilità, aveva dovuto fare anche Domenico Riso, come tante e tanti cittadini italiani di Torino, Firenze e Brescia, che ho conosciuto e che vivono in Spagna, migranti alla ricerca dei diritti di cittadinanza. Non è leghismo, succede in tutta Italia dal profondo sud al profondo nord: in questo non c’è differenza tra nord e sud Italia.

Ho sempre apprezzato negli articoli di Francesco Merlo la sua lucidità di analisi, che questa volta sembra mancare a causa di una indignazione uguale e contraria a quella che il movimento omosessuale ha voluto denunciare.

Da quando sono in Parlamento, mi capita spesso di parlare con i giornalisti del modo in cui i media italiani trattano l’omosessualità: li invito a riflettere, a ragionare ed interrogarsi e li ho trovati pronti a mettersi in discussione. Lancio una proposta ai giornalisti italiani: organizziamo una iniziativa di riflessione tra il giornalismo italiano ed il movimento omosessuale. Mettiamoci tutti in gioco e riconosciamo i limiti reciproci.

I mezzi di informazione hanno una grande responsabilità nella formazione e nella diffusione delle idee, ne siamo tutti consapevoli. La nostra denuncia, suonata probabilmente come una accusa, era – in realtà – una richiesta di aiuto, rivolta a chi può fare tanto nella lotta al pregiudizio per fare del nostro un Paese migliore. L’Italia ha un grande bisogno di un confronto vero ed aperto, per (ri)trovare la strada verso il Paese in cui vogliamo vivere per costruire una nuova comunità.

Un modo può essere quello di interrogarci a tutto tondo su come si affrontano da noi i problemi della vita e della morte delle persone. Noi siamo pronti a farlo.

Paola Concia

Paola Concia

Abruzzese di nascita, mi sono laureata presso La Facoltà di Scienze Motorie de L'Aquila. Il mio impegno in politica ha avuto inizio negli anni ottanta nel Partito Comunista Italiano, poi nei Democratici di Sinistra e in seguito nel Pd, di cui attualmente sono membro della Direzione Nazionale.

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