di Claudia Mancina
Un altro tagliando da fareÂ
La vicenda di Genova ha qualcosa di paradossale. Mentre tutti dibattiamo sulla necessità o l’opportunità di “applicare†più e meglio la 194, intendendo con ciò che si implementi la prevenzione, tentando tutti i mezzi per evitare gli aborti che con uno sforzo in più si possono evitare, e mentre tutti, fino a Giuliano Ferrara, lodiamo questa legge per avere sconfitto l’aborto clandestino, ecco che ci troviamo di fronte, nel modo più inatteso, ad una storia di aborti clandestini. Una storia anche tragica, per il suicidio del medico che li compiva, eccessivo e inspiegabile come tutti i suicidi. Quel medico ha scelto col suo gesto estremo di non dare spiegazioni sui motivi che lo spingevano a rendersi responsabile di un tale reato. Né sembra possibile considerarlo semplicemente alla ricerca di facili guadagni, se si considera la cifra richiesta. Su questo resterà probabilmente un interrogativo aperto. Non possiamo invece sfuggire alle altre riflessioni suscitate da questa sorprendente vicenda. Pensavamo che l’aborto clandestino fosse un residuo del passato, frequentato solo dalle donne più deboli e più povere. Veniamo invece a sapere che c’è una fascia di utenti, se così possiamo dire, che non è al di qua, ma al di là dell’aborto legale. Donne che non hanno la pazienza di aspettare il turno in ospedale, che non hanno voglia di rispondere alle domande, che non intendono giustificarsi. Donne che vogliono togliersi il pensiero in fretta e con discrezione. Da parte mia non mi sento certo di condannarle, né di denunciarne i “futili†motivi. Non credo che nessuna abortisca per motivi futili, ma perché a volte senza neppure saperlo non si sente pronta ad essere madre. Pur avendo sempre difeso la legge 194 e le sue procedure, capisco che possano essere sentite come macchinose e invasive. La difesa della privacy, che oggi è diventata così importante nel nostro panorama culturale e politico, non era una priorità negli anni settanta, e la sensibilità a questo aspetto è del tutto assente nella 194, che anzi obbedisce a un’ispirazione perbenista (cattocomunista): quella che la legalizzazione dell’aborto possa essere accettabile solo se opera in chiave pienamente pubblica. L’esclusione delle cliniche private – pur annesse per qualunque altro tipo di intervento sanitario – è il segno concreto di questa ispirazione, che femministe e radicali hanno sempre denunciato. Cattolici e comunisti hanno sempre risposto che le donne non devono essere lasciate sole. La solitudine, invece, è proprio ciò che molte donne cercano. Solitudine intesa non come abbandono, ovviamente, ma come privacy. E penso che sia nel loro diritto.
Contemporaneante, molte altre donne cercano aiuto, consiglio, sostegno. Come uscirne? Forse semplicemente prendendo atto del fatto che ci sono bisogni diversi, storie diverse, donne diverse. Che la 194 funziona se può giovarsi di strutture efficienti, che riducano i tempi di attesa (una componente fondamentale della vicenda personale di una donna che decide di interrompere la gravidanza); e soprattutto se tutti i passaggi della sua applicazione sono caratterizzati da discrezione e rispetto, riducendo al minimo gli aspetti intrusivi. Oggi c’è una forte spinta a valorizzare gli aspetti della prevenzione, quindi ad offrire alla donna una consulenza attiva, che esplori i suoi eventuali dubbi e le fornisca informazioni sulle possibilità di sostegno, non solo economico, alla sua maternità . La vicenda di Genova ci ammonisce non ad opporci a questa spinta, ma a depurarla di ogni aspetto ideologico e quindi astratto. L’ideale applicazione della 194 è quella che riesce a dare a queste diverse storie diverse risposte. Aiuto e sostegno a quelle che si sentono sole e hanno bisogno di aiuto e sostegno. Rapidità e privacy a quelle che invece non hanno dubbi e vogliono essere lasciate sole. Sospetto che ci sia, da parte di chi chiede la piena applicazione della legge, l’idea che sia compito delle strutture pubbliche scavare nella coscienza della donna per farne emergere i sensi di colpa e farla recedere dalla sua decisione. Questa è una posizione ideologica, così come è ideologica la posizione di chi rifiuta il discorso della prevenzione. Faremmo cosa utile a tutti, e soprattutto alle donne, se tutti ci convincessimo che è nella volontà della donna il centro della situazione di aborto. Si può intervenire per la prevenzione, se si sente che c’è una volontà non chiara, o influenzata da condizioni di vita difficili. Ma bisogna fare un passo indietro, quando la volontà è chiara e definita. Questo significa anche, com’è ovvio, affrontare il problema delle obiezioni di coscienza, per evitare che un diritto riconosciuto ai medici diventi il cavallo di troia della disattivazione della legge. Insomma, se c’è una morale possibile della brutta storia genovese, è che il cosiddetto “tagliando†alla 194, se dev’essere fatto, dev’essere fatto su tutti i punti e gli aspetti della legge, facendo attenzione a non alterare l’equilibrio tra principi etici contrastanti che essa garantisce.